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Kufia | Visual blog for Palestine

A collection of images, artworks and words is opens to every contribute from world wide, collectives and individuals, as supporting tool to "Kufia project - 100 disegnatori per la Palestina" (100 illustrators for Palestine). The goal of these pages is the comparison, the harvest of ideas, projects that are supporting the palestinian struggle for self-determination.

You can add this project publishing your own artworks or words, spreading around the url, telling it to your friends.


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A visual blog for Palestine.
Questa raccolta di immagini e parole, aperta ai contributi di tutti gli utenti, gruppi e sensibilità diffuse, è un supporto al progetto Kufia, 100 disegnatori per la Palestina.
Lo scopo di queste pagine è il confronto, la raccolta di idee, spunti, progetti che sostengano la lotta di autodeterminazione del popolo palestinese.

Potete partecipare al progetto pubblicando le vostre immagini e parole, diffondendo questo url, parlandone con amici e invitandoli a partecipare e sostenere.

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 Titolo: «Israele come Abu Ghraib, le torture sono la norma»

«Israele come Abu Ghraib, le torture sono la norma»

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Nome: Motaz Abuthiab
Testo: ALESSANDRA GARUSI
«Israele come Abu Ghraib, le torture sono la norma». Parla l'avvocato Talhami, che ha presentato all'alta corte di Tel Aviv una petizione contro gli abusi nelle carceri.
«La maggioranza degli oltre 7mila palestinesi, attualmente detenuti nelle carceri israeliane, ha subito torture durante gli interrogatori - afferma Maher Talhami - ma, a differenza di quelle commesse da soldati Usa nel carcere di Abu Ghraib, qui non esistono immagini. Solo centinaia di deposizioni scritte e giurate».
Parla con cognizione di causa questo avvocato arabo-israeliano. La sua organizzazione - Physicians for human rights-Israel (Phr) - si batte dal 1988 per la tutela del diritto alla salute; lo scorso 8 giugno, ha presentato all'Alta corte di Israele una petizione contro il Sistema carcerario israeliano (Ips), chiedendo che si ponga fine agli abusi sistematici commessi ai danni dei prigionieri nel carcere «Sharon». La sentenza è attesa per questi giorni.
Avvocato, dove si trova il carcere «Sharon»?
Nel centro del paese, a mezz'ora di auto da Tel Aviv. È un vecchio istituto detentivo (risale al 1953); ironia della sorte, porta lo stesso cognome dell'attuale premier israeliano. Mentre l'ala femminile è stata spostata, quella maschile resiste ed è sempre più grande, tanto che sono stati costruiti nuovi locali. Le torture da noi denunciate avvengono comunque in prevalenza nella parte vecchia.
Che genere di abusi subiscono i detenuti?
Si inizia lasciandoli in celle piccolissime senza luce, né servizi igienici. Quindi i detenuti vengono privati del sonno; a volte restano fuori al freddo, o sotto il sole cocente, per ore. Alcuni raccontano di essere stati costretti a sedersi su sgabelli bassi con le mani legate dietro la schiena (una procedura nota sotto il nome di «shabah»), o a stendersi sulla pancia con i polsi stretti alle caviglie. Ma la lista delle variazioni possibili è lunga, dai rumori assordanti agli incappucciamenti con stracci imbevuti di vomito o di urina. Quel che è peggio è che i detenuti non ricevono alcun tipo di assistenza medica. Un problema serio, viste le percosse, le ferite e le contusioni riportate durante gli interrogatori.
Nel 1999, in seguito a sette petizioni presentate da organizzazioni dei diritti umani, l'Alta Corte d'Israele non mise fuori legge la tortura?
Sì. Vietò l'uso delle torture fisiche su tutti i detenuti, a parte i kamikaze e gli aspiranti tali. E questa scappatoia ha permesso di reintrodurla in moltissimi casi. Inoltre, non disse nulla sugli abusi psichici. Oggi i detenuti palestinesi vengono terrorizzati con minacce del tipo: «Bombarderemo la tua casa, la raderemo al suolo. Andremo a prendere tua moglie e i tuoi figli».
Le torture sono praticate da «poche mele marce», o sono piuttosto una routine?
Le cito il caso recente di un ragazzo che è stato colpito otto volte al petto, prima di finire in ospedale. E lui stesso ha detto: «Avrebbero potuto arrestarmi senza sferrare un colpo, invece...». Il dramma è proprio questo: oggi un soldato israeliano può sparare a chiunque voglia e non gli succederà nulla, a meno che non ci siano delle foto potenti ad inchiodarlo. Una volta poi che un palestinese entra in carcere, sperimenta l'inferno. Il cibo fa schifo e nelle celle mancano i servizi igienici. Il carcere di Gilboa, a nord, ad esempio è nuovissimo. Viene chiamato «la cripta», perché da lì è difficilissimo fuggire. L'ho visitato: si mangia decentemente, ma il problema è che gli agenti trattano i detenuti con il massimo disprezzo, come se fossero animali. Rendono loro la vita impossibile.
Con quale frequenza gli avvocati possono incontrare i loro clienti?
Dipende. Dopo essere stati interrogati, possono vederli quando vogliono. Prima invece ci sono moltissime restrizioni. I palestinesi vengono definiti «security prisoners». Hanno condizioni diverse su tutto: dalla frequenza degli incontri con i legali alla durata dei colloqui senza una guardia. Anche in sede di processo, quasi sempre davanti a tribunali militari, non si riesce a ottenere molto. Le condanne sono sempre pesantissime; possono aggirarsi attorno a tre ergastoli più 40 anni di carcere. Anche in mancanza di prove, essi possono incorrere nella cosiddetta «detenzione amministrativa»: sei mesi rinnovabili per sei volte in carcere senza che sia stata formulata un'accusa. Può trattarsi di un uomo, una donna o un bambino.
Nel carcere «Sharon» ci sono anche minori?
Penso di no. Ma è difficile avere un quadro preciso dei detenuti minorenni nelle prigioni israeliane. So, ad esempio, che nell'infernale carcere di Hawar, vicino a Jenin, è detenuto un 14enne. È stato arrestato per aver gettato una pietra; il padre si è messo subito in contatto con noi, spiegandoci tra l'altro che il ragazzino ha un handicap psichico. Così ci siamo mossi, abbiamo chiesto di verificare la posizione del detenuto tramite i nostri avvocati, ma le autorità carcerarie hanno continuato a temporeggiare e il rilascio è stato disposto soltanto dopo oltre un mese. Intanto, ogni giorno vissuto là dentro è un giorno vissuto nell'orrore.
È in grado di dirci come sono le condizioni di salute di Marwan Barghuti, il leader di Al Fatah, tuttora detenuto?
Gli abbiamo mandato un medico, un mese e mezzo fa, per un check up generale. C'era stato segnalato un problema alla schiena, che ora almeno in parte è stato risolto. Il suo stato generale resta comunque molto precario.

Url\Email: http://www.aljedar.org


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